lunedì 20 settembre 2021

LA SERIE DEL DECENNIO - I MAY DESTROY YOU

 * questo articolo è uscito sulla rediviva (e gloriosa) fanzine Wolvernight



Di questa serie inglese del 2020, non ancora uscita in Italia, si parla come “serie dell’anno”, addirittura del decennio (di quale, a voi la risposta). Non solo perché Jane Fonda ha detto di essersela sparata tre volte di seguito, ma perché ha oggettivamente ottenuto un giudizio della critica storicamente altissimo per unanimità. Come si può vedere dal dato aggregato di Metacritic, I May Destroy You ha surclassato le “inseguitrici” (distanziando semi-capolavori quali Better Call Saul e Normal People, quest’ultima consigliatissima, tratta da un libro di una giovane scrittrice) piazzandosi veramente spesso al primo posto delle top ten dei critici statunitensi. E tra quelli del VCO, ovviamente.

Sì, perché i motivi per essere serie del decennio ci sono tutti.

Il primo è che I May Destroy You è una storia vera-vera. Non è un errore di battitura. I dodici episodi sono veri-veri perché non rappresentano una vicenda, quanto invece lo “sono”. E quel sono significa sia contenuti narrativi, sia produttivi.



Produttivi perché l’autrice ha tenuto testa alta finché non ha ottenuto il “minimo sindacale”, cioè una partecipazione agli utili e la garanzia del controllo realizzativo, dai padroni, cioè le corporation della serialità. Ha scartato Netflix (con cui era uscita la sua esilarante prima serie, Chewing Gum) che metteva sul piatto un milione senza però concedere titoli né garanzie autoriali. Alla fine ha siglato con BBC / HBO che le hanno riconosciuto un ruolo nella produzione, totale controllo creativo e tutti i diritti. Non è un fatto da poco, e va letto sapendo che l’autrice Michaela Coel è una donna poco più che trentenne, nera, che fa parte della classe operaia inglese. Figlia di un’addetta alle pulizie, fino a pochi anni fa sbarcava il lunario con lavori precari e per passione recitava poesie nei pub londinesi. Finché qualcuno non le ha suggerito di provare con il teatro, e lei ha fatto il botto, scrivendo Chewing Gum e ottenendo così tanto successo da approdare al settore video.

Narrativi perché nella storia di IMDY c’è molto di autobiografico. La protagonista Arabella Essiedou, come l’autrice, è una giovane, nera, vitale, precaria e squattrinata. Gli amici sono la sua famiglia. Arabella è una scrittrice in erba ed è anche una persona violata e stuprata, la serie comincia più o meno così.

Con gioia di vivere, ironia, amicizia e crescente consapevolezza dei traumi e delle violenze subite e delle innervature che questi hanno nella realtà che tutti noi frequentiamo, Arabella ci trasporta nel suo mondo con miliardi di sfumature e un ritmo perfetto di montaggio intrecciato e narrazione plurale. Uno sguardo rapido ma coloratissimo di dettagli, curioso e partecipe, che schizza tra appartamenti, locali, strade di Londra e..di Ostia, accompagnato da una colonna sonora decisamente all’altezza.





La storia


La trentenne Arabella ha pubblicato un libro su Twitter ottenendo un successo inaspettato; ora ha un editore che l’ha messa sotto contratto e la incalza per la scadenza imminente della consegna del secondo. Lei però non ha scritto nulla, forse anche perché in questo momento è ossessionata da un ragazzo di Ostia, è tornata a trovarlo e sta cercando di non innamorarsi. Biagio è un tipo indipendente e tranquillo, rispettoso e affascinante. Ma è uno spacciatore. Arabella lo ha conosciuto durante una vacanza “a ufo” in Italia come fornitore di droghe ricreative.

Al rientro a Londra, Arabella scrive di notte per onorare l’impegno editoriale, ma si concede una pausa di un‘ora per raggiungere alcuni amici (più hipster e danarosi di lei) in un bar. Non tutto ciò che accade viene immediatamente colto da noi spettatori e dalla protagonista. Scopriremo a breve che la giovane è stata drogata e stuprata, e questo sarà il nucleo attorno a cui girerà un po’ tutto.

Un fulcro che parla di consapevolezza, wokeness, e progressiva messa in discussione di aspetti che Arabella, come tutti noi in teoria, dà per scontati. L’amicizia e la sua capacità protettiva, la libertà di muoversi, divertirsi e socializzare (non solo per una donna ma per chiunque sia portatore di una qualche fragilità), il rapporto con le donne bianche, con il sesso e i piccoli grandi abusi. Il potere, il controllo e l’ossessione della vita social e l’impatto sulla persona. Il consenso. “Prima di essere stuprata non ho mai pensato a cosa significasse essere una donna. Ero impegnata ad essere nera e povera” scriverà Arabella.




...e tanta voglia di cambiarla

La preziosità di I May Destroy You è la capacità di tenere fermo il trauma di violenza fisica e mentale (Arabella soffre vuoti di memoria legati allo stupro che appaiono in tutta la loro drammaticità) mentre, grazie alla sceneggiatura e alla regia, ci permette di sfuggire a un feroce ed espiatorio processo al singolo, allargando l’ottica e permettendo a tutti noi di riconoscerci nelle vite degli splendidi ragazzi coprotagonisti. Impossibile sfuggire alle domande sui personaggi (amicizia e responsabilità, sessualità, lavoro) e sul contesto della vita che ci troviamo a vivere nella contemporaneità.

Feste, street-art, commissariati, palestre, atelier, bar, uffici, discoteche, psicologi, spiagge; sembra impossibile che in meno di mezz’ora di episodio ci stia tutto questo, con coerenza e ritmo. Nella serie di Coel ciò accade ogni episodio, al termine del quale ci si trova spesso a pensare che sia durato il doppio.

I personaggi di IMDY rivelano via via le loro ambiguità, tutti, ma senza perdere la loro familiarità; giovani esuberanti pienamente inseriti nel flusso della vita che a un certo punto si scoprono coinvolti in bullismo al liceo, violenze famigliari, stalking, revenge porn, gogne social, stigmi e pregiudizi vari. E quasi tutti si trovano, prima o poi, da una parte e dall’altra. Coel non punta il dito contro nessuno, alla fine, nemmeno verso i “peggiori”, ma porta i personaggi a intraprendere nuovi cammini, fare scelte che non rimuovono, forse nemmeno risolvono, ma si sganciano, o almeno, permettono di sopravvivere. Crescere, anche. Con sconcerto, urlando rabbia al mondo (social, soprattutto) e poi terapia, elaborazione creativa, e riapertura alla vita..e ai suoi abusi, di cui forse, con la consapevolezza, possiamo comprendere gli obiettivi e sottrarci al tiro più spietato.





Vite che sono la mia

Lo stupro è come un padre tra i traumi, è un manto che Arabella sfila da ciò che la circonda, mettendosi radicalmente in gioco e guardando le cose con nuova coscienza. Con grande abilità narrativa, le vicende collegate dei ragazzi di I May Destroy You ci dicono che le vittime sono tutti coloro i quali si trovano in condizione di fragilità, anche momentanea. L’abuso è uno scherzo pesante nel momento sbagliato, una madre che allontana con la menzogna i figli dal padre, un preservativo tolto di nascosto, un atto non desiderato in un incontro di sesso sfrenato combinato online. I traumi di Arabella e dei suoi amici non saranno utilizzati per generare empatia. Lo stesso vale per le rappresentazioni di minoranze e “subalternità” presenti nelle vicende dei personaggi della serie. Non sono inscenate per impattare, indignare, redimere, commuovere. Non c’è stigma, non c’è rappresentazione enfatica. Non c’è IL male e nemmeno IL colpevole.

La crescita di Arabella e dei suoi amici coinciderà con il rendersi consapevoli di quanta violenza, sfruttamento e abuso possa permeare le vite, tutte, le nostre e anche quella della protagonista, decidendo di non tacere più e di agire senza, al tempo stesso, perdere la voglia di stare al mondo liberi e il senso di un’umanità complessa che erra (in tutti i sensi) ed è capace di comprendere, evolvere, e perdonare. Potranno volerci anni, mesi...Arabella mostra una via, la sua via, per affrontare da un lato gli svantaggi dovuti a nascita e condizione e dall’altro gli abusi subiti, senza chiudersi nell’odio, nella violenza, divisivi e sempre in guerra col mondo. Forse, un lungo lavoro (generazionale e di classe) sui primi prepara ad affrontare i secondi. Raccontare, comunque, è l’inizio della cura. Stravolgere il punto di vista, raccogliere ciò che l’altro ha da dire, concedere seconde possibilità ai carnefici, è terapia. Mettere il dito nelle crepe e nelle ferite. Perchè siamo storie che possono voltare pagina.




La vita è tutta un’app

La socialità e il soddisfacimento dei bisogni contemporanei (lavorare, mangiare, fare sesso, spostarsi, costruire una relazione, farsi conoscere) avviene spesso tramite applicazioni telefoniche, spersonalizzando relazioni e modalità di incontro, dimenticando il caso ed il caos, smaterializzando il lavoro e la povertà, il corteggiamento, i corpi. La serie ci turba perché evidenzia che integrarsi in questo mondo significa esercitare e subire piccole grandi violenze ed ingiustizie ai danni dei più esposti, senza nemmeno (più) coglierle, perché le rimuoviamo e/o sono appunto “smaterializzate”, lontane dai nostri occhi ipersensibili ma ciechi.

Dalla rappresentanza alla presenza

I May Destroy You è uno di quei pochi prodotti arrivato ai circuiti distributivi mainstream in cui la classe lavoratrice (e soprattutto quella nera e femminile) non viene dipinta, in un modo o in un altro, ma si mostra per come dipinge. In quali strade vive, quali pennelli conosce e si può permettere, come li usa e cosa ci disegna. La “minoranza” si racconta da sola, con i suoi corpi, gli sguardi, i sogni e i nodi alla gola, le ferite e le scelte compiute per andare avanti e farci i conti. La “subalternità” è protagonista di se stessa e si emancipa fin dove può e ne ha consapevolezza.



Grumi di sangue e canti selvatici

Il racconto di Coel raccoglie la palla di altre narrazioni (come Orange is the new black, di cui si parlava prima) sul corpo femminile, che mostra senza edulcorare, anche nelle sue parti più intime e solitamente poco popolari, su cui riesce anzi a scherzare e intenerirci. Un corpo che in qualche modo ci riflette: possiamo camuffarlo o rimuoverne alcuni aspetti, ma resta composto in più o meno pari misura da pelle, curve, nervi, viscere, merda e sangue. Roba profumata e roba che non lo è affatto, insomma. Roba che possiamo condividere e gioirne, e roba che no. E’ come quando si taglia lo stelo del fiore e dentro c’è il verme. E’ così. E’ legge di natura. E anche in questa serie, sullo sfondo fino alla fine, la natura c’è. E’ un uccello che canta e continuerà a farlo. La differenza che possiamo fare noi, è decidere di fermarci un momento, uscire dalla spugna delle nostre esistenze automatiche, e ascoltarlo.

...e a proposito di musica


La serie di Michaela Coel è molto musicale, e probabilmente non poteva essere altrimenti, data l’ambientazione, i personaggi e il ritmo narrativo. Quasi tutto il sound è black: hip-hop, elettronica, R&B e gospel. Ciara Elwis, la 27enne curatrice di una colonna sonora che prevede lo sgancio di ben 150 frammenti musicali in 12 episodi, ha sottolineato come l’approccio al sonoro sia stato concepito proprio per evitare l’assorbimento sic et simpliciter nel dramma individuale/emozionale di cui si è detto sopra. Per fare un esempio, racconta Elwis in un’intervista al NYT, alla fine del secondo episodio Terry, l’amica sorella di Arabella, piange dopo aver messo a letto la protagonista reduce dalla denuncia dello stupro alla polizia. Invece di pompare con una classica canzone triste, parte "Nightmares" degli Easy Life, un pezzo R&B in cui delle trombe suonano in modo piuttosto giocoso. E così, al posto del solo pugno nello stomaco tipo "Oh mio Dio, non posso crederci, è orribile" (che comunque arriva) si genera dello spazio emotivo da esplorare, per il personaggio, e per lo spettatore. Funziona.















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