E', soprattutto, nutrire uno sguardo che si distacca dalla narrativa individuale per farsi corpo comune; ambiente, paesaggio, impresa umana e animale.
Questo cinema è vita, vita che respira, guarda, sta.
Le azioni degli umani, in prospettiva panoramica, si connettono e si armonizzano alle altre, al tutto, con cui compongono coreografie nel ciclo del nascere e del morire, della notte e del giorno. Smettono il pathos narrativo dell'eroe, appaiono fotografiche in un disegno più grande, arioso e globale. Affascinano le voci, senza parola ma con significato, sciolte nel tappeto sonoro di cui brulica la vita.
E' così: se ampli il campo dello sguardo, il singolo movimento diventa un frammento corale, con i suoi ritmi e colori.
Un rituale.
Ma che succede se proviamo a avvicinare gli occhi, ad affinare l'orecchio?
Da vicino esaminiamo una parte del
tutto. Ogni suono (al principio era il verbo) e ogni fenomeno ha un
suo specifico senso, distillato; come fa la scienza moderna ai fini
dell'indagine, ingrandendo, scomponendo, esplorando e analizzando le
singole parti. Come fa il pensiero e la parola. Come fanno gli
speleologi; arrivano (da su, dalla "testa") per calarsi
nell'oscurità.*
Come non hanno fatto, per millenni e
generazioni, gli abitanti della montagna.
Eh sì, perché
la domanda è: chi lo guarda quell'altopiano e l'abisso che contiene?
Con quale sguardo?
I pastori ci vanno al pascolo,
probabilmente da secoli e secoli, lasciando che l'abisso sia abisso.
Forse lo incontrano nelle fiabe o nei sogni. Nel momento in cui
l'abisso è illuminato, riprodotto e familiarizzato, qualcosa cambia, si stacca, muore.
Gli
speleologi ci transitano e si accampano con uno scopo preciso.
Entrare nella fessura, illuminarla, descriverla. Ci arrivano ieri,
nel '61, "dall'alto", in
forza di quella spinta economica che permette alla società del
capitalismo avanzato, di cui la realtà urbana è simbolo ed
espressione, un simile movimento di risorse e tecnologie.
Noi
spettatori giungiamo ora, affacciati a un schermo e in virtù di
quel che è successo dal 1961 ad oggi, tecnologia e risorse in
sviluppo costante. Siamo al cinema (che è un po' sogno, un po'
terapia), probabilmente soli, auspicabilmente in silenzio e
mascherinati.
Riassumendo: noi vediamo un film in una
sala, gli speleologi una grotta, il pastore un mondo.
Tre
visioni che qui si toccano, si incontrano, fluiscono una nell'altra
sull'onda di una visione più ampia in cui grazia e memoria faranno
da argine naturale alla pure ineluttabile indagine della ragione e
della parola.
Qui sta la preziosità del film; soprattutto
a valle, per gli spettatori a cui è destinato, le tre esperienze
sono vive e permeabili. "Il buco" ci trasporta TRA i coraggiosi esploratori, tra gli animali, le case,
le rocce e i pastori.
Idealmente, privilegiando gli sguardi
ampi, forse l'autore ci vuole avvicinare a una visione più grande in cui,
nel disincanto di un 2021, siamo più prossimi allo sguardo del
pastore sul mondo di cui sappiamo di far (infinitesimamente e
temporaneamente) parte, e che cambiando non muta (tutto passa e tutto
lascia traccia); anche se iniziamo un'epoca di imprese eccezionali,
in cui spostiamo i confini dell'umano in basso e in alto, un razzo
spaziale resta un impercettibile raggio di luce nell'oscurità
universale. Come nelle grotte del Bifurto, è un po' di luce nelle
tenebre.
Un po'...Se paragonata a tutto ciò che non
sappiamo, all'Abisso in cui siamo ancora immersi. Questo, nonostante
nel "piccolo", alla nostra altezza, gli spazi del selvatico
e dell'ignoto siano sempre più ridotti, non dobbiamo dimenticarlo.
Memoria. Questo, nonostante negli ultimi settant'anni molte luci si
siano accese, ha comportato che qualcosa d'altro si assopisse: le
nostre radici nel mondo antico, animista e rurale. Ma a queste radici
restiamo, con la grazia e l'incanto di questi occhi e queste storie, attaccati.