venerdì 29 luglio 2011

Aggiornamento Dexter e The Walking Dead

Ecco qui i trailer delle prossime stagioni di queste due ottime serie tv. A una prima occhiata sembrano aver subito un'iniezione di ansia e cattiveria. Speriamo non sia solo fumo negli occhi!





giovedì 28 luglio 2011

Le Dieci Fregature n°2: Kill Bill

Dire che è tutto già visto è dire poco e male, se si vuole criticare uno come Quentin Tarantino, autore che fa del citazionismo un'arte ricolma di estro, inventiva e personalità...Almeno di solito.
Ma non è questo il problema di Kill Bill. Per quanto mi riguarda, il fallimento di questo film ha radici ben più profonde, direi anche culturali.
Kill Bill, nel suo tentativo di raccontare una vendetta al femminile, ponendosi sopra le righe a tutti i costi, è poco più che un lungo esercizio tecnico, scontato nel soggetto e nelle caratterizzazioni. Ciò che non funziona è proprio un soggetto che basa il 90% della sua ragion d'essere sull'ironia che dovrebbe suscitare l'atteggiamento "anticonformista" -cinico, violento, volgare- delle donne presenti nel film (il restante 10% è una trama banale, qualche simpatica trovata di natura estetica, come i frammenti di anime e alcuni eccessi exploitation-splatter, e...?).


Che dire: a me non fa ridere. Mi sa molto di stereotipo "all'incontrario" (come quando i negri hanno per forza il senso del ritmo e il pisello grande mentre i biondoni sono tutti freddi, cattivi e parlano una brutta lingua). Ma l'ironia, si sa, si basa anche sui tabù, sui pregiudizi. E non tutti noi, o quantomeno io, ci scompisciamo dal ridere nel vedere una donna (termine più appropriato sarebbe "gnocca") dire all'altra: "Fammi godere, troia" mentre la scazzotta. E magari -ahah- nella scena successiva preparare la merenda alla figlioletta, come nulla fosse.
Mah, sarà che io alcune donne così le ho conosciute? Però, allora, non dovrei ridere nemmeno quando uno dei miei comici preferiti, Kalabrugovich, interpreta i tamarri di periferia milanesi (e quanti ne conosco!!!)


Invece, me la rido di brutto! 
Per tornare al tema, credo che seguendo questo ragionamento non dovrebbe farmi ridere nemmeno tutto quell'insieme di splendide interpretazioni, relazioni, dialoghi tostissimi e spettacolarmente femminili, che impreziosiscono un -grande- film di Tarantino: Grindhouse

In definitiva Kill Bill sa di tavolino, di legno stantio lungo quattro (dico QUATTRO) ore: nasce vecchio, artificioso, inutile. Non infrange i tabù ma si limita a giocherellare con le (brutte) vestigia e le (ripetitive) acrobazie di questo angelo vendicatore, con immancabile spada, invero molto stereotipato. Ma una donna che si vendica con tanta, tanta cattiveria, un po' di citazioni di genere e buone inquadrature non regalano l'anima ad un film.


PS. Adoro Tarantino, amo Le iene, Pulp Fiction, Bastardi senza gloria, ma questo film, come fu per Four Rooms (che fortunatamente non viene osannato come Kill Bill), per me è una vera delusione, visto che si parla di uno che considero fra gli autori più bravi e talentuosi degli ultimi vent'anni.

Link alla Fregatura n° 1 (si distingue anche lei per brevità, film per la televisione impropriamente giunto in sala, c'è Lo (S)Cascio...Che altro devo dire? 

mercoledì 27 luglio 2011

MUSIC ENERGY!


Per rilassarsi un po'...

La potenza di un coro unita a quella della dance music
Energetico!



martedì 26 luglio 2011

Lo chiamavano...Neocinema? Heavy Rain

C'è poco da fare: le storie a bivi di Topolino e i Librogame non riuscivano mai a soddisfare fino in fondo l'aspirazione di vivere un'esperienza in cui scelte e azioni modificassero il corso degli eventi e il finale. Sì, certo, c'era il caro e vecchio gioco di ruolo (e per fortuna c'è ancora, insuperabile dal punto di vista pedagogico e del divertimento), che però non prevede, di regola, nè raffigurazioni nè pagine scritte a cadenzare la vicenda narrativa. E ci sono anche le avventure testuali (un vero crossover tra videogaming e letteratura) e, soprattutto, le avventure grafiche, ovvero il seme da cui ha preso vita il nuovo e composito universo di cui oggi parlerò.


Un universo che mi risulta non avere ancora un nome preciso (e non c'è di che lamentarsi, come per il fatto che per molti conservatori di varia estrazione sia, più precisamente, innominabile, questo universo), di cui Heavy Rain è l'ultimo esponente (ne parlavo qui). Il gioco, scritto e diretto da David Cage, fondatore della casa di produzione francese Quantic Dream che aveva, a suo tempo, sviluppato i predecessori Omikron: The Nomad Soul e Fahrenheit, è rivoluzionario perché apre un nuovo sistema, una nuova esperienza, prima solo abbozzata, cioè il cinema in consolle.

Parliamo, infatti e senza dubbio, di un film, cioè di un'operazione (audio)visiva in cui una "sequenza di immagini dette fotogrammi incise su una striscia di poliestere o di triacetato di cellulosa (la pellicola vera e propria) da proiettare ad una velocità tale (24 fotogrammi al secondo solitamente, ma ne bastano 12 per ottenere l'effetto) che possa rendere l'illusione ottica del movimento" (fonte Wikipedia). Non solo regia, ma un approccio cinematografico a sceneggiatura, fotografia, montaggio, produzione esecutiva e...casting, dato che i personaggi sono ricostruiti digitalmente su volti e movenze di attori veri.  Guardate qui sotto.


Il punto forte di Heavy Rain è proprio riuscire a far entrare i meccanismi di gioco -in primis cioè, trattandosi di avventura, di controllo del proprio personaggio- in strepitosa unione con gli ingranaggi filmici. Per esempio, quando il giocatore decide di compiere un'azione, la velocità con cui muove il controller si ripercuote sia sul movimento dell'avatar, sia sull'inquadratura, con ampia possibilità, allora, di comporre il proprio sguardo, come una sorta di montaggio. In effetti giocare/vedere Heavy Rain significa trovarsi dentro il film non solo come potenziali scrittori della sua sceneggiatura, ma come montatori dei suoi sguardi e dei suoi ritmi.

Ogni aspetto grafico è, ça va sans dire, molto curato. Il realismo raggiunge punti estremi, come per l'espressività dei volti (pelle, lacrime, muscolatura facciale, brufoli...), la fluidità dei movimenti, la caratterizzazione mimico-posturale ed espressiva dei diversi personaggi. Tutto molto credibile.



Tornando a trama e personaggi, la storia è un noir ben ambientato, una sceneggiatura equilibrata, complessa senza essere eccessiva, contorta. Giochiamo con quattro personaggi diversi, altro aspetto molto positivo per coinvolgimento nella magia del racconto; e scoprire chi è l'assassino, un serial killer di bambini, non è per nulla facile ma, con intuito e ragionamento, possibile. In merito alla molteplicità dei finali e alle scelte della trama, bisogna dire che non sarà solo sparare o meno a qualcuno o riuscire ad uscire da un appartamento che ha preso a fuoco a determinare il proseguire della vicenda ma, per esempio, sentire -il coinvolgimento emotivo alla prima partita è assicurato- di volersi aprire a una relazione sentimentale con un altro personaggio porterà scene diverse da quelle previste se, invece, preferiamo che un rapporto di collaborazione tale rimanga.


Ci sono voluti anni per produrre Heavy Rain, ma si tratta di un'attesa che ha reso possibile non lasciare nulla al caso. Accennavo al grande livello di coinvolgimento emotivo alla prima partita: poi, e forse questo è un limite del gioco, è solo la curiosità di scoprire "cosa cambierebbe se" a farci ricominciare, lasciandoci alle spalle il "sacro fuoco" del videogiocatore perché comunque, rimettersi dietro alla vicenda, comporta un elevato grado di ripetitività (cioè il problema per antonomasia dei videogiochi, ma non del cinema): ma va bene così. Del resto, appena finito un lungo e piacevole telefilm d'autore -prendiamone uno a caso che non poteva non essere omaggiato anche da Heavy Rain: Twin Peaks!- siete proprio sicuri che vi rimettereste a vederlo da principio il giorno dopo? 
(Certo che se potessi cambiare storia e finale e magari far ballare Audrey nuda nel bosco dei sicomori o mandare Bob ad azzannare cadaveri, un pensierino lo farei...)


PS Chi vi ricorda costui, se vi dico che è un agente FBI?

lunedì 25 luglio 2011

Una ragazza con la voce grande


Una corda sul collo
Viola
Tesa, fusa.
E' latta, smaltata
Ruggine, brillante
Increspata
Dentro:
Alici massacrate
Succose.

La bocca è aperta,
Storta, scura
Scrigno
Per un'anima di voce grande
Per l'oro del Corsaro.

Londra nelle vene
L'Oceano nello sguardo
Per me 
Fiorivi, orchidea,
In uno scorcio di Leigh
Nei manoscritti senza tempo 
Che dei poveri cantano le miserie.

Concubina del Nero.

Libera e straziata 
Pentagramma di pelle trafitta.
Riposa ora 
Nell'abisso di pace
Che a tua immagine ti abbraccia
Bones Stardust
Voice forever Salt







lunedì 18 luglio 2011

Pom Poko: più mutante di così, si muore

Pom Poko potrebbe essere la "risposta" di Takahata al tema così limpidamente (ma senza alcuna semplificazione) esposto da Miyazaki nell'indimenticabile "anime di formazione" La Principessa Mononoke. Se le due protagoniste femminili guide delle rispettive fazioni -foresta e città- del film di Miyazaki, pur nella complessità, nelle sfumature e nella circolarità del loro essere (almeno dal punto di vista umano) complementari, se le davano infine di santa ragione, in Pom Poko invece lo scontro ha carattere non strettamente guerresco, non fosse altro per la ghiottoneria dei protagonisti del film, ovvero le popolazioni di Tanuki che, nell'equilibrio degli insediamenti umani di campagna, con i loro avanzi specie di sushi e carni arrosto, ci stavano più che bene. 

I Tanuki sono una sorta di cani procioni del folklore giapponese (noti per i testicoli di dimensioni gigantesche, come si vede anche nell'anime) che, con il declino del mondo contadino, si trovano espropriati dei loro boschi a causa dell'urbanizzazione selvaggia umana. Attraverso lo studio e l'esercizio dell'antica arte della metamorfosi, sapienza perduta tipica della loro cultura, i piccoli mammiferi cercano di organizzare una resistenza a tratti violenta e "canina", ma più spesso basata sulla burla e sul sabotaggio, all'invasione umana. 



Per la prima volta trovo molto difficile credere che una foto possa restituire anche solo un pezzetto del senso e dell'aria che si respira in questo film. Il motivo presumo sia da ricercare nella totale centralità dell'aspetto trasformativo e di movimento che caratterizza ogni molecola di questo stupefacente anime. Ogni raffigurazione dei Tanuki è soggetto a mutamento e variazione, la loro rappresentazione si muove dal tratteggio stilizzato a quello minuzioso e animalesco, fino a quello umanizzato, quasi umano, totalmente umano. Per tutta la prima metà del film domina la soggettività collettiva del Popolo dei Tanuki o del gruppo dei prescelti a condurre azioni di disturbo mirate interpretando diversi personaggi (divertentissimi dèi arrabbiati, spiriti, animali, mostri riconducibili ogni volta ad un unicum -un mito, uno scherzo, un entità polimorfa). Poi, anche le storie dei singoli avranno il loro corso, con esiti sempre imprevedibili e...creativi. Un film da vedere.