venerdì 8 ottobre 2021

Pur sempre tenebre - Il buco, di M. Frammartino

Guardare "Il buco" è entrarci. E' sedersi sulle creste di un pascolo montano. Salire sul Pirellone nello spirito del 1961.

E', soprattutto, nutrire uno sguardo che si distacca dalla narrativa individuale per farsi corpo comune; ambiente, paesaggio, impresa umana e animale.

 

 

Questo cinema è vita, vita che respira, guarda, sta. 

Le azioni degli umani, in prospettiva panoramica, si connettono e si armonizzano alle altre, al tutto, con cui compongono coreografie nel ciclo del nascere e del morire, della notte e del giorno. Smettono il pathos narrativo dell'eroe, appaiono fotografiche in un disegno più grande, arioso e globale. Affascinano le voci, senza parola ma con significato, sciolte nel tappeto sonoro di cui brulica la vita.

E' così: se ampli il campo dello sguardo, il singolo movimento diventa un frammento corale, con i suoi ritmi e colori.

Un rituale.

Ma che succede se proviamo a avvicinare gli occhi, ad affinare l'orecchio?

Da vicino esaminiamo una parte del tutto. Ogni suono (al principio era il verbo) e ogni fenomeno ha un suo specifico senso, distillato; come fa la scienza moderna ai fini dell'indagine, ingrandendo, scomponendo, esplorando e analizzando le singole parti. Come fa il pensiero e la parola. Come fanno gli speleologi; arrivano (da su, dalla "testa") per calarsi nell'oscurità.*

Come non hanno fatto, per millenni e generazioni, gli abitanti della montagna.

Eh sì, perché la domanda è: chi lo guarda quell'altopiano e l'abisso che contiene? Con quale sguardo?

I pastori ci vanno al pascolo, probabilmente da secoli e secoli, lasciando che l'abisso sia abisso. Forse lo incontrano nelle fiabe o nei sogni. Nel momento in cui l'abisso è illuminato, riprodotto e familiarizzato, qualcosa cambia, si stacca, muore.

Gli speleologi ci transitano e si accampano con uno scopo preciso. Entrare nella fessura, illuminarla, descriverla. Ci arrivano ieri, nel '61, "dall'alto", in forza di quella spinta economica che permette alla società del capitalismo avanzato, di cui la realtà urbana è simbolo ed espressione, un simile movimento di risorse e tecnologie.

Noi spettatori giungiamo ora, affacciati a un schermo e in virtù di quel che è successo dal 1961 ad oggi, tecnologia e risorse in sviluppo costante. Siamo al cinema (che è un po' sogno, un po' terapia), probabilmente soli, auspicabilmente in silenzio e mascherinati.

Riassumendo: noi vediamo un film in una sala, gli speleologi una grotta, il pastore un mondo.

Tre visioni che qui si toccano, si incontrano, fluiscono una nell'altra sull'onda di una visione più ampia in cui grazia e memoria faranno da argine naturale alla pure ineluttabile indagine della ragione e della parola.

Qui sta la preziosità del film; soprattutto a valle, per gli spettatori a cui è destinato, le tre esperienze sono vive e permeabili. "Il buco" ci trasporta TRA i coraggiosi esploratori, tra gli animali, le case, le rocce e i pastori. 

Idealmente, privilegiando gli sguardi ampi, forse l'autore ci vuole avvicinare a una visione più grande in cui, nel disincanto di un 2021, siamo più prossimi allo sguardo del pastore sul mondo di cui sappiamo di far (infinitesimamente e temporaneamente) parte, e che cambiando non muta (tutto passa e tutto lascia traccia); anche se iniziamo un'epoca di imprese eccezionali, in cui spostiamo i confini dell'umano in basso e in alto, un razzo spaziale resta un impercettibile raggio di luce nell'oscurità universale. Come nelle grotte del Bifurto, è un po' di luce nelle tenebre.

Un po'...Se paragonata a tutto ciò che non sappiamo, all'Abisso in cui siamo ancora immersi. Questo, nonostante nel "piccolo", alla nostra altezza, gli spazi del selvatico e dell'ignoto siano sempre più ridotti, non dobbiamo dimenticarlo. Memoria. Questo, nonostante negli ultimi settant'anni molte luci si siano accese, ha comportato che qualcosa d'altro si assopisse: le nostre radici nel mondo antico, animista e rurale. Ma a queste radici restiamo, con la grazia e l'incanto di questi occhi e queste storie, attaccati.



la luce della ragione illumina le tenebre

sono pur sempre tenebre




* E' il '61, e gli speleologi ci arrivano con quella che a noi pare una gradualità, inserendosi nel contesto. Dormono in chiesa, giocano coi bambini del paese, ci mettono un po' a portare strumenti e disporli nella cavità. Cantano popolare e disegnano quel che vedono. Sono ancora con un piede nel mondo antico, ma per poco, già gli sfuggono. Torneranno all'ombra del Pirellone, i loro figli nasceranno negli ospedali e non mungeranno mai una capra.

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