(Lee Chang-Dong, Corea del Sud, 2010)
Mija è una allegra signora attempata. Nella sua casa di periferia cresce il nipotino adolescente, la cui madre lavora lontano. Sbarca il lunario grazie ad un sussidio e facendo, per alcune ore alla settimana, la badante di un anziano semi-paralizzato.
Poco dopo essersi iscritta ad un corso di poesia, le viene diagnosticato l'Alzheimer. Ma non è questo a sconvolgerla.
Molto più bruciante è l'orrore nascosto dietro al silenzio di persone che si immaginano vicine e conosciute.
Molto più bruciante è l'orrore nascosto dietro al silenzio di persone che si immaginano vicine e conosciute.
La storia di Mija, che segna il ritorno sulle scene di un attrice-mito in Corea del Sud, Yu Jung-Hee, è una parabola sulla leggerezza e la poesia che non possono, o non riescono più, a toccare il cuore, pur scorrendo con grazia sulla superficie delle cose. Una leggerezza che, allora, non basta più ad affrontare la vita, nè a interiorizzarne la bellezza: questo sembra essere il messaggio riservato a Mija dalla terribile svolta che subisce la sua esistenza.
Un film composto e soavemente attento ai particolari, una storia sulla solitudine, le contraddizioni e l'incomunicabilità.
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