Da appassionato ed ex praticante (amatorialee) di pugilato.
Da meridionale che ama e odia ciò che è il Sud e che ha vissuto Napoli e Marcianise.
Da sostenitore della lucidità, del coraggio, dello sforzo pedagogico di educazione civica e morale di Saviano e di tante altre ottime persone come lui...
Non posso non riportare stralci di questo articolo a firma di Roberto Saviano che presenta Tatanka (regia di Giuseppe Gagliardi), apparso su Repubblica di oggi, 5 maggio 2011. Poi magari il film sarà una boiata pazzesca (Clemente Russo che interpreta se stesso per me è un segnale d'allarme, poi vedremo), ma queste parole a me entrano nelle viscere:
"Lo scarto tra il fuori caotico e violento, lussuoso e patinato, dove vince il più furbo e il dentro pieno di umiltà e fatica, dove vincono sacrificio e tenacia. Nel film c'è il racconto di ciò che accadeva a Marcianise alla fine degli anni '90, quando per prima, in Italia, dalla fine della guerra si era vista imporre il coprifuoco dal Prefetto, perché in quegli anni si contava un morto al giorno. Quando iniziarono a massacrarsi i Mazzacane e i Quaqquaroni, le famiglie che gestivano quelle zone, gli allenatori di boxe furono fondamentali per salvare il territorio. Seguendo nient'altro che l'imperativo del pugilato, "tutti in palestra senza distinzione di colore, testa, classe, religione, gusto""
"Non puoi chiedere al maestro Brillantino chi sia il miglior pugile che abbia mai allenato. "Tutti" ti risponde con una sincerità disarmante, oppure se lo trovi nervoso e speranzoso: "Quello che deve ancora entrare in palestra e che sto aspettando". Molti credono di sapere per chi batta davvero il suo cuore. Qual è il pugile che ami di più. Ma è il prescelto per un attimo, poi però capisci che le sue stelle sono tutte lì, attaccate al muro. Proprio stelle. Stelle di carta ritagliate da lui una ad una, e che portano al centro la foto di ogni pugile che abbia vinto un trofeo, dal più piccolo regionale sino ai mondiali e gli ori olimpici. "Nessuno resta indietro" è il motto del maestro. E i ragazzi per questo lo adorano. È così, con queste immagini, che si nutrono i sogni dei pugili che si allenano alla Excelsior."
"I coach andavano a prendere i ragazzini dai bar, dalle piazze, fuori dalle scuole. E così li strappavano al deserto metropolitano in cui i clan riescono a reclutare, a mettere sulle loro scacchiere di alleati e nemici, i giovani di generazione in generazione. La boxe rompeva questo meccanismo e lo faceva in modo definitivo. In questo il ring è spesso più efficace di una laurea. Perché quando hai combattuto col sudore della tua fronte e con le tue mani, arruolarsi nella camorra diviene una sconfitta. O fai di tutto per restare in piedi sul ring o dai fondo alle tue forze e metti in conto di andare giù. In ogni caso combatti, uno contro l'altro senza altre possibilità o mediazioni. Scegliere di diventare pugili non ti renderà ricco"
"Ma non è l'esito di un incontro a stabilire chi veramente è più forte. Più che la vittoria, più che i risultati degli incontri, conta la pratica dell'esperienza di dolore, conta l'assenza di senso che occorre sostenere per potervi salire e starci dentro la vita che cerchi di sceglierti come vivere. La differenza tra un campione e un buon pugile la fa il motivo per cui combatti. Non un motivo necessariamente civile o sociale. Religioso o familiare. Ma una pulsione che ti spinga a superare te stesso. Che ti spinga a essere, su quel quadrato, più di te stesso. Quando in qualche modo porti nella tua sfida le speranze di molti, e i pugni che dai e ricevi sul ring smettono di essere solo gesti sportivi e divengono simboli. Divengono i cazzotti di un'intera generazione, i ganci e gli uppercut di chi non ne può più di stare sempre in salita o di chi cerca in qualche modo di rialzarsi. In quel momento smetti di combattere solo per te stesso, per il tuo titolo, per i tuoi allenatori, per i soldi da portare a casa, per la fidanzata che vuoi sposare. E combatti per tutti. Come De La Hoya ha sempre combattuto con tutti i latinos dentro i suoi pugni, o Jake La Motta con la furia che girava nel corpo degli italoamericani. Mohammed Ali invitato ad una lezione ad Harvard coniò dinanzi ad un aula gremita di studenti la poesia più breve del mondo. Che sintetizzava il suo talento, quello che lo portava a vincere: "Me We", ovvero, "Io Noi". Anche se qualche anno dopo ci ha scherzato su dicendo che aveva detto "Me? Whee!", come dire "Io? Evviva!", quel Io Noi, per me è il pugilato."
L'articolo completo è qui
http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2011/05/05/news/tatanka_la_vita_in_un_pugno-15800504/?ref=HREC1-8
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